(Cronaca di una notte che non voleva finire)
Era una sera d’ottobre, e il cielo sopra Londra sembrava trattenere il respiro. Il cartellone diceva: Ozzy Osbourne – The Final Scream. Nessuno ci credeva davvero. Ozzy aveva già sfidato la morte, la medicina e la logica. Ma stavolta… sembrava vero.
Damiano era lì. Biglietto strappato, giubbotto borchiato, cuore in gola. L’arena era piena di anime nere, vecchi metallari con le lacrime agli occhi, giovani che volevano dire “Io c’ero”. Sul palco, un trono d’ossa e amplificatori Marshall. Dietro, il logo di Ozzy brillava come un sigillo magico.
Le luci si abbassarono. Silenzio. Poi… “I Don’t Know”. Il riff tagliò l’aria come una lama. Ozzy apparve, lento, ma possente. La voce era roca, ma viva. Ogni parola sembrava scolpita nel marmo. “Let me hear you scream!” urlò — e l’arena esplose.
Il concerto fu un viaggio. Crazy Train, Mr. Crowley, No More Tears. Ogni brano era una confessione, una battaglia, un addio. A metà serata, Ozzy si fermò. Guardò il pubblico. Disse:“Sono ancora qui. Perché voi siete ancora qui. E finché urlate, io non smetto.”
Poi arrivò Mama, I’m Coming Home. Le luci si fecero rosse. Il pubblico cantava. Alcuni piangevano. Ozzy si inginocchiò. Il palco sembrava tremare. E quando l’ultima nota svanì, lui si alzò, fece il segno delle corna, e scomparve nel fumo.
Nessuno uscì subito. Era come lasciare un tempio. Damiano scrisse sul suo blog: “Ozzy non ha chiuso un concerto. Ha aperto un portale. E noi ci siamo passati.” RIP OZZY.

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