Cronaca di una notte che non doveva esistere)
Era il 6 giugno, alle 6:66 del pomeriggio — sì, l’orologio si era rotto, e nessuno osava aggiustarlo. Il locale si chiamava La Fossa, un ex mattatoio abbandonato alla periferia di Ravenna, dove l’umidità sapeva di sangue e amplificatori bruciati.
La band si chiamava Teschi di Ferro. Nessuno li aveva mai visti suonare, ma tutti ne parlavano. Si diceva che il loro batterista fosse scomparso durante un assolo, che il cantante avesse una voce capace di rompere le ossa, e che il chitarrista accordasse le corde con filo spinato.
Damiano era lì, in prima fila, con il giubbotto borchiato e le pupille dilatate. Il pubblico era una mandria di anime dannate: piercing, catene, occhi rossi e cuori neri. Nessuno era lì per divertirsi. Erano lì per essere distrutti.
Il primo riff fu come un’esplosione nucleare. Le casse tremarono, il soffitto si crepò, e un corvo cadde morto sul palco. Il cantante urlò: “Benvenuti all’ultimo concerto della vostra vita!” — e nessuno rise.Poi successe l’impensabile. Le luci si spensero. Il suono continuava, ma non c’era più nessuno sul palco. Solo fumo. Solo urla. Solo riff. Alcuni giurarono di aver visto il chitarrista levitare. Altri dissero che il basso suonava da solo. Una ragazza svenne, ma continuò a pogare.
Quando le luci tornarono, il palco era vuoto. Gli strumenti erano in fiamme. Il pubblico, in silenzio, uscì uno a uno, come sopravvissuti a un rituale. Nessuno parlava. Nessuno filmava. Nessuno dimenticava.
Damiano tornò a casa con le orecchie sanguinanti e il cuore accelerato. Scrisse sul suo blog: “Il metal non è musica. È possessione.”

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