Ivan e Vanni erano tornati a Londra. Non per scelta. Il Riff li aveva chiamati. Ogni suono della città sembrava accordato su una nota che non esisteva. Una Frequenza che non si poteva scrivere. Solo sentire.
Camminavano lungo il Tamigi, quando un uomo li fermò. Capelli lunghi, occhi gentili, voce profonda. Era lui. Brian May. Nessuna guardia, nessun entourage. Solo lui, con una chitarra in spalla e uno sguardo che sapeva troppo.
“Vi stavo aspettando,” disse. “Il Riff… non è nuovo. È antico. E io l’ho sentito. Una volta. Nel 1975.”
Li portò in un teatro abbandonato, sotto Piccadilly. Le luci non funzionavano, ma il palco era intatto. Sul pavimento, un simbolo inciso nel legno: una corona spezzata, circondata da corde.
Brian aprì la custodia. Dentro, una Red Special modificata. Aveva sette corde. La settima era fatta di rame.
“Questa chitarra non suona per tutti,” disse. “Ma il Riff l’ha scelta. E ora… vuole essere suonato.”
Ivan prese il plettro. Vanni si sedette alla batteria. Brian accordò la settima corda. E il suono uscì.
Non era musica. Era memoria. Scene, volti, luoghi. Un concerto che non era mai accaduto. Una band che non era mai esistita. Un pubblico che non aveva mai respirato.
Quando il Riff finì, Brian chiuse la custodia. “Non cercatelo più,” disse. “Il Riff non va trovato. Va rispettato.”
Poi sparì. Come se fosse stato solo Frequenza.
Ivan e Vanni rimasero sul palco. La corona spezzata brillava. E il silenzio… cantava.
“Il Riff non è potere. È verità. E chi lo suona… deve essere pronto a perderla.”

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